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Cenni Storici

Negli anni ottanta del secolo XV, am­pliatosi il giro delle mura cittadine, vi fu­rono inclusi vari edifici che in precedenza se ne trovavano fuori, fra gli altri San Gio­vanni a Carbonara e Santa Caterina a Formiello. Questa era una piccola chiesa con annesso convento di frati celestini, dedicata alla vergine martire di Alessandria ed era detta ‘a formiello’ in quanto nei suoi pressi penetrava in città l’antico acquedot­to della Bolla e perché, come scrisse Carlo Celano nel 1692, “qui principiano le acque ad entrare nei nostri formali; quali se co­me stanno fabbricati sotto terra, stassero sopra, cosa più maravigliosa veder non si potrebbe per tutto il mondo. Questi, che noi chiamiamo formali, altro non sono che acquidotti che van serpeggiando per tutta la dttà (...) e sono così ben fatti, che adagiatamente vi si può camminare”. Questi percorsi sotterranei erano così ben agibili, che servirono ai Bizantini e poi agli uomini di Alfonso d’Aragona per conquistare la città, penetrandovi proprio dalla parte di porta Capuana.

Il sacro edificio fu fondato in epoca imprecisata dalle famiglie Zurlo ed Aprano, Hi ma già nel 1451 apparteneva ai frati dell'ordine dei Celestini. Nei pressi era un ospedale, mantenuto da una confraternita che aveva anche una cappella nella chiesa e che dipendeva dal monastero, con cui divideva il frutto delle eredità ed al quale sottoponeva le ammissioni di nuovi mem­bri e l’elezione del priore. La chiesa non era certo fra quelle reputate di prestigio, tant’è vero che fra i possessori di cappelle non si ritrovano famiglie nobili, salvo quelle dei fondatori, ma di estrazione 'borghese' o artigianale (notai, barbieri, letterati), la stessa da cui sembrano prove­nire gli iscritti alla confraternita. E la chie­sa era al centro di una festa popolare mol­to sentita, già in disuso ai primi del secolo XVI, ricordata dal Velardiniello e da Masucdo Salernitano.

La vita tranquilla e modesta del pio luo­go fu sconvolta dalla presenza della nuo­va dimora che Alfonso, duca di Calabria, volle costruirsi nel 1487 non lontano da Castel Capuano, nella zona poi detta Duchesca. Il Duca aveva bisogno di spazi in cui alloggiare i suoi cortigiani ed appuntò le sue mire sul vicino convento della Maddalena. Egli acquistò dai Celestini il complesso di Santa Caterina e, ottenuto il consenso del Papa nel 1489, vi trasferì a forza le riottose monache agostiniane. Ma gliene incolse male e gli scrittori del tem­po vollero vedere negli avvenimenti suc­cessivi il segno della punizione divina: molti cortigiani ospitati alla Maddalena si ammalarono e morirono; nel 1495, dopo neanche un anno di regno. Alfonso II era costretto ad abdicare per l'invasione di Carlo VIII. Ristabilita la situazione politica a favore della casa d’Aragona, il nuovo re Federico nel 1498 riportò le suore nella loro antica sede. Nel secolo XVI, in una stanza del loro convento, si vedevano di­pinte le due scene dell’ arrivo delle agostiniane a Santa Caterina e del loro ritor­no alla Maddalena. Nella prima era raffigurato Alfonso che spingeva a calci una suora urlante.

Con re Federico iniziava per Santa Cate­rina una nuova e più ricca storia. Egli la concesse nel 1498 ai padri domenicani della Congregazione riformata di Lombardia che la tennero, senza interruzione, fino al 1809, data della soppressione del monastero, decretata dal Murat. Fin dal 1390 il beato Raimondo da Capua aveva avviato in seno all’ordine domenicano un movimento di riforma, tendente a ridar vigore alle antiche regole ed a proporre una vita più austera e spiritualmente in­tensa. Un folto gruppo di conventi rifor­mati diede vita alla Congregazione di Lombardia. Ma non tutti desideravano sottoporsi alle nuove regole, più rigorose di quelle attuate solitamente, e spesso era lo zelo delle autorità ecclesiastiche e civili ad imporle contro la volontà dei frati. Questo si verificò anche a Napoli dove i sovrani fin dal 1489 avevano insistito af­finchè i lombardi prendessero sotto la loro giurisdizione vari conventi. Soltanto nel 1493 i riformati si piegarono per le impo­sizioni del papa Alessandro VI e si presero carico di ben undici conventi campani, fra i quali San Domenico Maggiore. Ma l’incontro tra i frati lombardi ed i locali, poco propensi a farsi riformare, fu un fal­limento e già nel 1496 i primi avevano ab­bandonato il campo, conservando solo la chiesa di Arienzo. Nel 1498 accettarono Santa Caterina in quanto si trattava di un convento non ancora popolato e dove, quindi, non si ponevano problemi di con­vivenza. Per favorirne l'ampliamento re Federico nel 1501 donò ai frati un conti­guo pezzo di terra con una torre e parte della vecchia muraglia. Altre famiglie im­portanti collaborarono con offerte alla nuova fabbrica, tra l'altro i Sanseverino di Bisignano, gli Acquaviva d’Atri, i de Capua, conti di Altavilla, il vescovo di Acerenza Vincenzo Palmieri e, soprattutto, gli Spinelli di Cariati. (R. R)

Santa Caterina, una delle più importanti chiese napoletane del Rinascimento, è da segnalare anche per il rilievo monumenta­le che assume nel paesaggio urbano: posta tra la Porta Capuana e il Castel Capuano segna con l'eleganza delle sue strutture, visibili da notevole distanza, il principale ingresso alla città murata. Subito al di là della porta ci appare il fianco caratterizza­to dalla sovrapposizione degli ordini delle paraste di piperno sui bianchi intonaci, dal raccordo con volute tra l’alta navata centrale e le minori, dagli obelischi e dalla balaustra di coronamento. Su tutto domi­na l’alta cupola che le antiche fonti indica­no come la prima costruita in città.

La chiesa venne iniziata nella metà degli anni dieci del Cinquecento su progetto dall'architetto di Settignano Remolo Balsimelli ed infatti sono chiaramente leggibili influenze toscane che gli studiosi hanno ritenuto provenire o da Brunelleschi o da Giuliano da Sangallo o da Francesco di Giorgio. Balsimelli, probabilmente già a Napoli nel 1505, è documentato nel 1519 per lavori di piperno nella chiesa che fu completata nel 1593; il portale ornato con la Statua della santa titolare è di Francesco Antonio Picchiarti (1659).

L'attribuzione della paternità della chie­sa, fatta in passato, a Francesco di Giorgio (già attivo a Napoli nel 1491) per la pre­senza di vari elementi comuni alla compo­sizione di Santa Maria del Calcinaio a Cortona (i tondi rosoni che si corrispon­dono sull'asse della navata e del transetto; la strombatura delle finestre a tabernaco­lo, le absidi rettangolari) non è più sostenibile, ma è indubbio che “il senso di tut­to il contesto della chiesa napoletana (...) rimane quello di una cadenza equilibrata e serena che, nel suo essere priva di ogni tensione drammatica, influenzerà il dise­gno di tante altre chiese napoletane dell’età della Controriforma” (Pane) che, per la regolarità dell'impianto e la data­zione, Georg Weise riteneva derivate da modelli spagnoli e fonti d’ispirazione del­la chiesa del Gesù di Roma.

Le finestre a tabernacolo con timpano triangolare possono essere inoltre con­frontate con le due, inedite e di rilevante interesse, sul fianco sinistro della chiesa di Monteoliveto.

L'interno è a croce latina ad una navata, coperta a botte, su cui si aprono le cappel­le (cinque per lato) su base pressoché qua­drata coperte da volte a botte; il transetto non sporge dal perimetro perfettamente rettangolare della chiesa, il presbiterio è quadrato anch'esso coperto a botte.

Al 1514 è documentato il grande chio­stro a due ordini di archi e pilastri di for­me mormandee (si vedano i tipici capitelli ionici) eseguito da Fiorentino della Cava; nell'Ottocento il monastero ed i chiostri sono stati adibiti a Lanificio militare con vaste alterazioni del disegno originario (tompagnature di arcate, copertura del chiostro piccolo affrescato) e costruzione di strutture (ciminiere, padiglione nel chiostro grande) che hanno però formato in pieno centro cittadino un singolare mo­numento di archeologia industriale che merita, in un auspicato restauro, tutela e valorizzazione. (L. D. M.).

Sul cadere del secolo XVII la navata subì radicali restauri che non ne modifi­carono le linee rinascimentali ma vi so­vrapposero ornati e scene di gusto più moderno. Il nuovo coprì senza contrasto l'antico, lo piegò alle proprie esigenze espressive, celò sotto una coltre di ornati a monocromo le pure strutture dei pilastri in piperno, mentre gli elementi vegetali, di grande finezza esecutiva, si arrampica­rono anche lungo il fregio e ricoprirono la volta a botte dove, fra i girali, vivono gra­ziosi angioletti. La stessa volta viene sfon­data da tre riquadri: nel centrale è Santa Caterina d'Alessandria in gloria, contemplata in basso da Santa Caterina da Siena, nei due ovali laterali cori d'angeli. Con queste scene si rompe la compattezza della volta e fa irruzione l'elemento illusionistico, vi­sioni di cieli popolati da figure che sono tipiche del barocco. Altre figure di Santi domenicani sono in piedi ai lati delle fine­stre. Dove non si potette coprire con de­corazioni si cercò di inglobare, con ap­prezzabili risultati, gli elementi preesi­stenti. Così il finestrone tondo sulla fac­ciata diviene il centro luminoso di una composizione che lo vede poggiato su una sorta di basamento curvilineo e quasi sorretto da due angeli, posti ai lati. La sottostante parete della controfacciata ve­de svolgersi una scena di grande effetto teatrale, il Martirio di Santa Caterina, am­bientato in uno spazio delimitato da un'ampia esedra colonnata e raggiunto da una scalinata. L'intenso effetto sceno­grafico viene accentuato dal gestire dei vari personaggi, retoricamente atteggiati a mostrare sorpresa o terrore per l'inter­vento divino che manda in pezzi la ruota del martirio. Quest’opera fu firmata nel 1695 da Luigi Garzi che eseguì entro il 1697 tutte le opere citate e conferì l'aspet­to attuale alla navata. Egli venne da Ro­ma, dove era stato allievo di Andrea Sacchi e Carlo Maratta, e portò a Napoli un gusto barocco classicizzante, volto alla ri­cerca di squisite cadenze decorative, di pose eleganti, di espressioni sentimentali moderate.

Sulla stessa onda culturale si posero i domenicani quando vollero continuare la decorazione nel transetto e nella cupola. I peducci di questa erano già stati dipinti dal Garzi con le figure della Fede, della Castità, della Penitenza e della Mansuetudine, ma l'opera era rimasta interrotta e solo nel 1712 Paolo De Matteis, uno dei più impor­tanti pittori locali del momento, reduce da esperienze romane e parigine, vi affrescò La Madonna, Santa Caterina ed i Patroni di Napoli che implorano la Trinità a favore detta città. Il dipinto è quasi illeggibile a dimo­strazione della sfortuna che accompagnò tutte le cupole napoletane di Paolo: demolita quella del Gesù Nuovo, rovinata l’altra di San Ferdinando. Intanto volte e lunettoni del transetto erano stati affidati a Giuseppe Simonelli che morì ben presto per cui ci si rivolse ad un fiammingo, bril­lante colorista ed al corrente dell'ultimo barocco romano, Guglielmo Borremans, che tra il 1708 ed il 1709 raffigurò nella volta del transetto destro San Domenico e la Vergine che placano l'ira del Redentore, al centro, ed ai lati La Madonna appare a San Giovanni Evangelista e San Domenico che caccia gli infedeli. In questi riquadri è evi­dente la preoccupazione provocata fra Sei e Settecento dall'ultimo vano attacco dei turchi all'Europa: nel primo infatti è di­pinto un guerriero in ginocchio, forse Don Giovanni d'Austria, e delle navi sul fon­do, a ricordo della vittoria di Lepanto del 1571; nel secondo i personaggi in fuga so­no in costume turco. La presenza di questi brani sono anche giustificati dal fatto che il sottostante cappellone è dedicato alla Vergine dèi Rosario, cui si attribuì la vitto­ria navale. Nella volta del transetto sini­stro Borremans effigiò al centro La Gloria di San Domenico, cui è dedicato il sotto­stante cappellone, ed ai lati lo stesso santo che brucia i libri eretici e che riceve in so­gno la Vergine. Ancora Borremans affrescò nella volta dell'abside II trionfo di Giuditta, ora quasi illeggibile, mentre alle pa­reti Un miracolo di San Domenico e Mosè fa scaturire le acque sono opera di Nicola Rus­so, inquadrate da architetture finte di Gaetano Brandi che rappresentò anche degli angeli che spostano un finto drap­peggio, rivelando in tal modo i quadri, se­condo un artificio tipicamente barocco. Nel nuovo contesto vennero inserite alcu­ne sculture più antiche: il tondo con la Madonna col Bambino, posto sull'acquasan­tiera di destra, attribuita ad allievo di Annibale Caccavello (circa 1540-50), ed il Cri­sto risorto, bassorilievo di scuola napoleta­na degli anni 1515-20 circa. All’azione di modernizzazione non sfuggirono le cap­pelle, tutte decorate nei primi decenni del secolo XVIII con finte architetture, putti, ornati astratti e vegetali. In tal modo la chiesa cinquecentesca acquistò un aspetto omogeneo e divenne uno dei luoghi più interessanti per lo studio dell'ultimo ba­rocco dal tono arcadizzante e del primo rococò. L'ultimo tocco di modernità fu da­to alla metà del secolo XVIII quando il marmoraro Francesco Antonio Gandolfi realizzò il pulpito ed il pavimento, rifatto conservando varie lastre sepolcrali cin­quecentesche, ormai abrase dal calpestio, recanti stemmi, scritte ed ornati rinasci­mentali Al centro della navata la sepoltura delle consorelle della Congrega del Rosario, del 1625, con le immagini di quattro donne inginocchiate.

Nella seconda cappella di destra, sull’al­tare, un’ Adorazione dei Magi e le Sante Ca­terina da Siena e d'Alessandria, ora in depo­sito, già parti di un polittico dipinto nel 1597 da Silvestre e Giovan Bernardino Buono. Esso fu commissionato dai de Ca-stellis, proprietari della cappella i cui stemmi appaiono sul chiusino e su alcune mattonelle maiolicate del pavimento, da­tate verso il 1576 e di manifattura napole­tana. Qui i colori impiegati sembrano pre­ludere alle maioliche del secolo seguente. Verso il 1720 furono eseguiti gli ornati del­le pareti da Francesco Frangaretti che in­quadrò le tele con La fuga in Egitto e La cir­concisione, di Paolo De Matteis. Nella cap­pella seguente, sull’altare, una Pentecoste, attribuita a Silvestre Buono (ora in depo­sito), e tele ed affreschi di Paolo De Mat­teis. La quarta appartenne agli Acciapaccia e vi si vede, murata a destra ma un tempo sul pavimento, la lastra sepolcrale di Luigi Acciapacda, scolpita nel 1552 da Annibale Caccavello, fronteggiata dal sepolcro di Federico Tomacelli, marchese di Chiusano, degli anni 1604-6. Di grande interesse il pavimento maiolicato a cellule ottagonali, composte da una mattonella centrale quadrata, con stemma Acciapaccia, al centro dì quattro esagonali. Esso è di manifattura napoletana della prima metà del secolo XVI. Gli si può accostare l’altro, molto consunto, della cappella se­guente, eseguito a Napoli verso il 1539, forse dal maiolicaro Luca Iodice che mo­stra ancora forti legami con la tradizione del periodo aragonese. Nei tozzetti cen­trali gli stemmi dei Raviniano, titolari del­la cappella che fu decorata con affreschi e tele con San Vincenzo Ferrer e suoi fatti mi­racolosi da Santolo Cirillo nel 1733.

Nel transetto destro il cappellone del Rosario propone forme architettoniche e decorative di gusto romano, riconoscibili nelle ampie specchiature in alabastro, nell'impiego di marmi rossi, verdi anti­chi, giallo di Siena, nell'insistenza su mo­duli geometrici e nella nicchia prospettica che inquadra il gruppo scultoreo con La Vergine che dà il rosario ai Santi Domenico e Caterina da Siena, anch'esso impostato se­condo i canoni romani da Paolo Benaglia, un toscano attivo anche a Roma dove la­vorò alla fontana di Trevi. Lo stesso ese­guì i tondi coi Misteri del Rosario, disposti in due file da sei ai lati dell'altare. Le par­ti marmoree furono invece affidate a Francesco Antonio Gandolfi che vi atten­deva negli anni 1736-37 secondo i disegni di Carlo Schisano.

Lo spazio della crociera e del presbite­rio è caratterizzato dalla presenza di lapi­di e sepolcri della famiglia Spinelli che lo aveva ottenuto in patronato grazie ai co­spicui contributi elargiti per la fabbrica della nuova chiesa. In tal modo una delle maggiori famiglie feudali del Regno ac­campò il proprio prestigio nel punto più eminente del tempio e lo trasformò nel proprio Pantheon, imprimendovi una profonda traccia attraverso statue, stem­mi ed iscrizioni che ne sottolineano titoli e parentele illustri, meriti ed imprese. Il complesso è caratterizzato da una severa dignità non ancora toccata dalla magniloquenza tipica del successivo periodo ba­rocco. I defunti sono raffigurati in piedi sui sarcofagi, secondo uno schema comu­ne nel periodo manieristico, ed in armi, come si conveniva al nobile che amava presentarsi da guerriero, come l'ideologia aristocratica imponeva. Più originale l’inserto in un medaglione, inquadrato nello stesso contesto architettonico, del busto della moglie, vista secondo l’immagine ideale della donna fornita dalla Controriforma, austera, religiosa e sottomessa quasi emanazione del consorte. Tanto si osserva nei due sepolcri posti alla base dell’arco trionfale, dal lato verso l’altare maggiore. Quello di destra è di Giovanni Vincenzo Spinelli, duca di Castrovillari morto nel 1576, e di sua moglie Virginia Caracciolo; l’altro di sinistra è di Traiano Spinelli, principe di Scalea, morto nel 1566, e della moglie Caterina Orsini. In entrambi i casi il defunto impugna l’ascia e si erge fieramente mentre la consorte si affaccia lateralmente, col capo modesta­mente coperto. Sul tìmpano del primo so­no le statue in piedi dei Santi Vincenzo Ferrer e Giovanni Evangelista, su quello del secondo Santa Caterina d'Alessandria e La Madonna. Sui sepolcri appaiono gli stem­mi degli Spinelli e la ruota, simbolo del martirio della santa titolare della chiesa. Sulla base degli stessi pilastri, addossati alla faccia verso la navata, sono le tombe di Isabella Spinelli, contessa di Nicastro, morta nel 1580, a destra, e di Dorotea Spi­nelli, contessa di Falena, morta nel 1570, a sinistra. Entrambe sono raffigurate sedu­te, col capo coperto ed in contemplazione l’una del Padre Etemo, l'altra della Ma­donna. Questo complesso di sepolcri fu eseguito fra il settimo ed il nono decennio del secolo XVI da un gruppo di scultori composto dai napoletani Giovan Dome­nico e Gerolamo D'Auria, Annibale e Sal­vatore Caccavello, e dal lombardo Silla Longo. In particolare a Giovan Domenico si è attribuita la figura di Dorotea Spinelli mentre la Madonna che la sovrasta è stata ritenuta di Annibale. È questo un altro degli esempi di collaborazione fra i due che avevano organizzato un'efficiente so­cietà che prendeva in appalto la realizza­zione di complessi scultorei, come questo dei sepolcri Spinelli dove è difficile di­stinguere nettamente le varie mani. Si può soltanto dire che molto probabilmen­te la tomba di Isabella è riferibile a Salva­tore Caccavello. Addossati alla base dei pilastri opposti, altri due sepolcri degli Spinelli: a sinistra quello di Carlo, duca di Castrovillari, morto nel 1609, con sul lato sinistro il ritratto della moglie Eleonora Crispano; a destra di Ferdinando, vesco­vo di Nicastro e poi di Policastro, morto nel 1592. Il primo, attraverso l'iscrizione, ci mostra il tìpico iter militare di un ari­stocratico meridionale: Carlo entrò quasi ragazzo nell’esercito, combattè ad Ostia, a Siena, alle Curzolari, in Portogallo e nel Belgio, difese la sua terra dai predoni e ri­vestì cariche militari di un certo prestigio. Nell’altro monumento, rimasto incom­piuto, riposa Ferdinando, un personaggio tipico del tempo dapprima militare, poi divenuto religioso ed asceso ad alte cari­che ecclesiastiche. Lapidi sepolcrali, poste nel presbiterio sul pavimento, e la tomba di Giovanna de Cardenas, moglie di Francesco Maria Spinelli, morta nel 1779, posta alla parete sinistra del transetto si­nistro, affermano ulteriormente la presen­za in questo spazio della famiglia Spinelli che dovette anche finanziare la costruzione dell’altare maggiore, sui cui lati se ne vedono gli stemmi, lavoro in marmi poli­cromi, ormai di gusto rococò, databile in­tomo al 1737.

Nel suo paliotto fu riutiliz­zato un rilievo marmoreo tardo cinque­centesco, raffigurante Cristo morto, mentre nel retro è collocato un tabernacolo rina­scimentale. Passati nell’abside si vedono lungo le pareti gli stalli del coro, intagliati con ricchi ornati manieristici dal brescia­no Benvenuto Tortelli coadiuvato da altri intagliatori che avevano compiuta l'opera già nel 1566. Qui vediamo affermarsi una cultura di origine lombarda e la stretta af­finità con altri lavori dello stesso Tortelli, personalità chiave per lo sviluppo e la modernizzazione dell'arte dell'intaglio li­gneo nel Meridione, autore dei cori di Montecassino e della chiesa dei Santi Severino e Sossio. Nelle due testate e sul fregio dello stallo centrale si vede la ruo­ta, simbolo del martirio di Santa Caterina che è raffigurata nello schienale del me­desimo stallo. In alto, malamente visibile, una tavola cinquecentesca con La Trinità ed i Santi Caterina da Siena e d'Alessandria, Pietro e Paolo.

Si passi ora al transetto sinistro, occupa­to dal cappellone di San Domenico, pro­gettato da Ferdinando Sanfelice ed esegui­to per le parti marmoree da Lorenzo Fon­tana nel 1715-17. Il dipinto con San Dome­nico che vince gli Albigesi è di Giacomo del Po, le due Virtù marmoree ai lati sono opera di Giacomo Colombo, autore pure del Padre Etemo nell'edicola sul timpano. I quattro angioletti sono invece di Matteo Bottigliero. Sia i dipinti che le sculture ed i marmi mostrano un gusto finemente de­corativo, di una scioltezza aerea e trasco­lorante evidente nell’uso di marmi mac­chiati o venati, nella levità del tocco di del Po e nei fluenti effètti plastici delle statue. Un complesso, questo, di raffinata cultura rococò, mutilato del cane, simbolo dei do­menicani, già posto nel paliotto ed ora in un deposito.

Ritornati nella navata si visitano le cap­pelle del lato sinistro. Nella sesta, dedicata alla santa d’Alessandria, si vedono II mar­tirio di Santa Caterina, sull’altare. La santa che rifiuta di sacrificare agli idoli, a destra, e La santa che disputa coi savi, a sinistra, tele di Giacomo del Po che propongono il suo stile fluido ed aereo, di grande finezza cromatica, riconoscibile anche nell’affre­sco della volta e negli altri alle pareti, da­tabili come le tele intorno al 1714. Lo stes­so gusto bizzarro e felicemente decorativo lo si riscontra nell’altare marmoreo.

Nella quinta cappella si vedono La Nati­vità di Maria, a destra, e Le nozze della Vergine, a sinistra, tele di Luigi Garzi. Sotto l'altare sono depositate le reliquie dei San­ti martiri di Otranto abitanti di quella città massacrati dai turchi nel 1489 quan­do se ne impadronirono. I loro resti ven­nero portati a Napoli per volontà di re Alfonso II nel 1490 e depositati alla Mad­dalena che sarebbe stata dedicata a Santa Maria dei Martiri. Giunti i domenicani a Santa Caterina si videro affidare i 240 cor­pi che, nel 1574, furono posti in casse nell'altare del Rosario, nel transetto de­stro Quindi tra il 1739 ed il 1901 essi stet­tero nella seconda cappella di sinistra donde furono trasferiti nell'attuale collo­cazione. Un dipinto novecentesco sull'al­tare ricorda il martirio degli idruntini.

Nella terza cappella di sinistra affreschi e tele furono realizzati nel 1698-99 da Giu­seppe Simonelli, allievo di Giordano, che dipinse nella volta San Giacomo in gloria, nel quadro di sinistra La predica A' San Gia­como ed in quello di destra II martirio di San Giacomo. Sull'altare una tavola, ora in deposito, attribuita a Silvestro Buono, raf­figurava Sa n Giacomo fra i Santi Giovanni Battista e Pietro.

Segue una cappella non tanto interes­sante per il dipinto di Antonio Gamba (1732), raffigurante Santi domenicani, quanto per lo scenografico complesso» di reliquiari, a forma di sarcofago o di teche, in legno nero e con intagli dorati, che ci propongono quel gusto severo, teatrale ma un po’ funereo, proprio del barocco che amò esibire ossa ed altre reliquie in sontuosi apparati espositivi di grande ef­fetto. A completare la teatralità dell’insie­me intervengono i drappeggi dipinti che si schiudono a rivelare i contenitori.

Una grande famiglia, quella dei Tocco, possedeva la prima cappella a sinistra, sul cui altare marmoreo, cinquecentesco, si vedeva una tavola di Francesco Curia con La Madonna col Bambino e i due San Giaco­mo, momentaneamente posta in Santa Ma­ria della Pace.

Dal transetto sinistro si accede alla sa­grestia che presenta la struttura rinasci­mentale coperta da una decorazione a fre­sco settecentesca, con al centro una Ma­donna in gloria, molto rovinata opera di Tommaso Crosta che dipinse anche il qua­dro con La predica di San Domenico, posto sull'altare della cappellina in fondo. Con­temporaneamente fu anche rifatto il pavi­mento, tipico lavoro di maiolicari napole­tani che vi dispongono un repertorio di girali, riccioli, pavoni, ad incorniciare lo stemma dell'ordine domenicano. Si salvarono invece gli armadi originari. Intagliati da Martino Migliore nel 1587. Questi si presentano alterati nella parte inferiore ma nel dossale mostrano il repertorio de­corativo diffuso a Napoli da Benvenuto Tortelli. Dalla sagrestia si passa al chiostro piccolo, di cui si vede solo un braccio, dal­le arcate murate, separato dagli altri adibi­ti ad altri usi. Qui, oltre ai danneggiatissimi affreschi tardo cinquecenteschi, si tro­vano due sepolcri, provenienti da antiche cappelle della chiesa: quello di Giacomo Guindazzo ed Ippolita Carmignano, degli anni 1520-32, e l'altro di Giovanni Raviniano e Lucrezia Forma, del 1539 circa. Nella congrega del Rosario, cui si accede dal chiostro, uno sconosciuto pittore, Scipione d’Angelo Muto firmò nel 1574 una tavola del Rosario.

Nel convento domenicano si ammirava una raccolta d'arte e di curiosità naturali ed artificiali. Opere che le fonti dicono, con chissà quale fondamento, di Dürer, di Bemini, di Ribera; sculture in cera, metal­lo, avorio ed alabastro; oggetti archeologi­ci, erano esposti insieme a denti e scheletri di animali, conchiglie, rami di corallo, mi­nerali, ad un feto con due teste e piedi d'animale, nonché ad una serie di oggetti curiosissimi fra cui spiccano le rose india­ne, che si aprivano se poste sull'ombelico, bezoari, nidi di uccelli ed altre singolarità del genere. Questa raccolta si può assimi­lare alle cosiddette Wunderkammer, tanto in voga dal XVI secolo in poi, dove si as­semblavano tutte le curiosità naturali ed artificiali possibili. La raccolta, che risaliva al primo ventennio del Seicento, fu messa insieme dal padre Maurizio de Gregorio e veniva visitata da molti viaggiatori prove­nienti da tutta Europa. Anche dispersa, agli inizi del secolo scorso, è la ricca biblioteca, formatasi fin dai primi momenti di vita del convento arricchita in seguito da do­nazioni, cospicua quella di papa Benedet­to XIII Orsina e da acquisti.

Usciti dalla chiesa, sul sagrato, si vede l’edicola con il busto di San Gennaro, vo­luta e pagata dalla Deputazione del Teso­ro di San Gennaro come ringraziamento per la protezione accordata dal santo alla città in occasione di varie calamità. L’ope­ra fu progettata da Ferdinando Sanfelice che creò un'architettura abbastanza equi­librata, ispirata a quella degli altari effi­meri, ideati da lui stesso per la festa del patrono. L'esecuzione delle sculture fu af­fidata nel 1706 a Lorenzo Vaccaro che riu­scì a realizzare soltanto i due vivaci angio­letti sul timpano, prima di essere assassi­nato l’anno seguente. Il figlio Domenico Antonio portò a termine nel 1708 il monu­mento scolpendo il busto di San Gennaro, dall’aspetto bonario, diverso da quello aristocratico che di solito gli si attribuiva. Secondo il biografo settecentésco Bernardo De Dominici lo stesso Vaccaro figlio eseguì un altro monumento dedicato al patrono, posto sulla via della Marinella, molto simile a questo.

Svoltando lungo il lato destro della chie­sa si vede una statua di San Gaetano, in travertino, poggiante su una base in pipemo. Essa si trovava fino agli anni trenta del nostro secolo sulla porta Capuana, dalla parte interna, dove era stata posta dopo la peste del 1656 a ricordo della pro­tezione accordata dal santo alla città in oc­casione di quella epidemia. Al di sopra della porta, in un’edicola verso l’esterno, Mattia Preti aveva dipinto negli anni 1656-59 i Santi Gennaro, Agnello, Michele e Rocco che implorano dalla Vergine la fine della peste, enorme ex voto già danneggiato dal terremoto del 1688, quasi illeggibile ai pri­mi del Settecento ed, infine, sostituito nel 1837 da un’ Immacolata, affrescata da Gen­naro Maldarelli, destinata anch’essa ad es­sere eliminata nel corso del restauro degli anni trenta che intese restituire alla porta il suo aspetto originario, quello pensato dall'architetto toscano Giuliano da Maiano. La fabbrica, eseguita nel 1487, fu deco­rata da rilievi di Jacopo della Pila e dove­va avere nel fregio un gruppo marmoreo raffigurante l’Incoronazione di Ferrante I, rimasto incompiuto nella bottega fiorenti­na di Benedetto da Maiano e mai colloca­to al suo posto. Nel fregio furono invece sistemati nel 1535 lo stemma asburgico e le sculture a bassorilievo dei Santi Gennaro ed Agnello, che tuttora si vedono. (R. R.)

 

 

TOCCO I

 

La cappella fu costruita nel 1586, per volere di Camillo Tocco dei baroni di Chianchitella. Di probabili origini longobarde, la famiglia Tocco si collocava tra le fila della nobiltà feudale del Mezzogiorno, vantando stretti legami sia con la monarchia Sveva sia con quella Angioina.

La cappella, decorata con gusto classico, presenta una pianta non perfettamente quadrata; al suo interno la presenza di alcune iscrizioni e dello stemma di famiglia, sormontato da un elmo con cinghiale, posto al centro del pavimento a maioliche cinquecentesche e ai lati dell’altare, ne documentano la storia.

La cappella accoglie le spoglie del figlio Iacopo e della moglie Lucrezia Capece Piscicelli (membro di un’illustre famiglia patrizia napoletana del Seggio di Capuana) scomparsa prematuramente nel 1586 a soli 24 anni; il suo monumento funebre si trova nella parete sinistra della cappella.

L’altare, dedicato alla “Deiparae Virgini et utrisq Iacobis Apostolis”, fu portato a termine insieme al monumento funebre e racchiude un importantissimo dipinto di Francesco Curia: “Madonna con Bambino e Santi Giacomo Maggiore e Minore”; questa tavola è considerata da molti studiosi la prima opera documentata del pittore napoletano ed è datata 1586. L’opera, assai guasta, non ha perso però la raffinatezza del suo impianto disegnativo, l’eleganza delle forme proprie del pittore napoletano massimo protagonista di quel gusto proprio del Manierismo internazionale.

Sulla destra troviamo un fonte battesimale che simbolicamente rappresenta una soglia, la quale si varca  partendo dal sacramento del battesimo e prosegue nel cammino di fede. Per questo motivo si trova in prossimità dell’ingresso, in tensione tra l’esterno e l’interno.

 

 

CAPPELLA II DEI DOMENICANI

 

La denominazione ricorda la presenza dell’ordine del padri domenicani i quali contribuirono all’edificazione della chiesa nel 1498, tenendola in gestione fino alla soppressione degli ordini ad opera di Giuseppe Bonaparte con il decreto del 4 agosto del 1806.

Attualmente, la cappella, ospita un interessante e scenografico complesso di reliquari all’interno di teche in legno nero con intagli dorati.

Esse propongono un gusto severo, teatrale ma funereo, tipico della mentalità barocca, che amava esibire ossa ed altre reliquie in sontuosi apparati decorativi.

Le reliquie facilmente riconoscibili sono di: San Vincenzo Martire (situato sull’altare), S. Eliodoro Martire sulla parete sinistra, S. Innocenzo Martire sulla parete destra.

Sulla parete frontale è presente un imponente altare marmoreo, il quale si prolunga verticalmete ricoprendo la maggior parte della parete ed avente al centro una cornice dorata ospitante un bellissimo dipinto, firmato e datato dal pittore Antonio Gamba (1732).

La tela è caratterizzata dalla presenza di alcuni santi domenicani insieme al cardinale Vincenzo Maria Orsini.

Egli inizialmente era padre domenicano (come l’ordine presente nel monastero), poi tra il 1688 ed il 1702 fu arcivescovo di Benevento e nel 1724 papa[1]; il legame che accerta il motivo del suo ricordo presso il monastero di Santa Caterina è la donazione di un cospicuo numero di testi alla biblioteca (attualmente dispersa), un tempo annessa a questo monastero[2].

Il grande privilegio dato ai padri domenicani fu motivo di così tanto lustro che doveva per forza essere ricordato, legando per sempre il nome di Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII al monastero di Santa Caterina a Formiello.

 

 

CAPPELLA III FAMIGLIA DE SYLVA

 

La cappella è un tempietto interamente dedicato alla figura di San Giacomo.

Primo fra gli apostoli a subire il martirio per decapitazione, fu evangelizzatore della Spagna, della quale è patrono.

Inoltre San Giacomo è protettore dei cavalieri e dei pellegrini, infatti nei dipinti, in linea con l’iconografia cristiana, compare con una conchiglia oppure con un cappello, entrambi simboli del pellegrinaggio.

La cappella fu eretta nel 1697 per volere di Vincenzo Maria De Sylva, del sedile Capuana poi vescovo di Calvi, il quale contribuì a finanziare i lavori di costruzione.

La decorazione pittorica avvenne tra il 1698 ed il 1699, subito dopo i lavori di costruzione. Sull’altare è collocato un dipinto attribuito a Silvestro Buono e raffigurante “San Giacomo fra i Santi Giovanni e Pietro”, mentre sulle pareti laterali è possibile ammirare “La predica di San Giacomo” (a sinistra) ed “Il martirio di San Giacomo” (a destra) di Giuseppe Simonelli.

Il Simonelli, allievo di Luca Giordano, si occupa anche della decorazione ad affresco della cappella la quale si distingue per una particolare propensione verso l’illusionismo prospettico-decorativo.

Ne sono esempi le finte architetture, i finti drappi presenti nelle pareti laterali e l’affresco sulla volta “Gloria di San Giacomo” in cui si riscontra un magnifico effetto “sfondato”, tecnica decorativa avente lo scopo di raffigurare illusoriamente spazi aperti su un reale spazio architettonico alquanto limitato.

 

 

CAPPELLA IV MARTIRI DI OTRANTO

 

La cappella, dedicata ai beati Martiri di Otranto, custodisce sotto il proprio altare policromato duecentoquaranta reliquie appartenenti ad alcuni cittadini di Otranto, uccisi dai Turchi (14 agosto 1480) per non aver rinnegato la propria fede.

Alfonso d’Aragona, Duca di Calabria, traslò a Napoli, tra il 1485 -1489, i corpi dei Martiri, ma solo nel 1574 furono collocati nella chiesa di S. Caterina a Formiello.

La cruenta agonia a cui furono sottoposti è illustrata nel dipinto novecentesco di L. Scorrano collocato sull’altare raffigurante, particolarmente, l’episodio del martirio di Antonio Primaldo. Egli, dopo aver esortato i suoi compagni a non cedere nella fede, fu il primo ad essere decapitato ma, subito dopo, il cadavere acefalo si sollevò da terra divenendo immobile come una colonna, dunque fermo nella fede come lo era stato prima di morire.

Sulle pareti laterali si presentano due tele appartenenti al pittore romano Luigi Garzi ed aventi come soggetto la Natività (a destra) e lo Sposalizio di Maria (a sinistra).

Esse si inseriscono all’interno di una decorazione parietale a carattere illusionistico, nella quale compaiono finte architetture e statue “reggi cornice” in gusto monocromato.

La decorazione illusionista prosegue sulla volta del soffitto, nella quale viene ripresa una finta cupola composta da tamburo e finestre aperte su di un bellissimo cielo blu.

Il tema del Martirio, invece, è ribadito dalla presenza di due angeli seduti al centro del timpano, spezzato, presente sulla parete frontale.

Infatti ,mentre l’angelo destro regge la palma, simbolo del martirio, il sinistro regge il giglio, simbolo della purezza.

 

 

CAPPELLA V SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA

 

La cappella è dedicata interamente a Santa Caterina d’Alessandria, una giovane martire di origine egiziana vissuta tra il 287 ed il 304 sotto il governariato romano di Massimino Daia, il quale ne ordinò la sua condanna a morte poiché la donna rifiutò di convertirsi al paganesimo.

Il simbolo legato al suo martirio è la ruota uncinata con la quale i carnefici tentarono inultilmente di ucciderla, infatti l’attrezzo miracolosamente si spezzò inducendoli a procedere per decapitazione (l’immagine della ruota uncinata e spezzata, ricorre frequentemente in vari punti della chiesa).

La storia della martire è illustrata nei dipinti realizzati dal pittore Giacomo del Po, autore anche della decorazione parietale, il tutto è datato intorno al 1714 c.a.

Sull’altare, addossato alla parete frontale, è collocata la “Decollazione di Santa Caterina”, la quale rivela, nei colori e nei movimenti dei panneggi, un’influenza classicistica e naturalistica proveniente dalla scuola carraccesca.

Sulle pareti laterali, invece, sono presenti due dipinti caratterizzati da uno stile fluido, aereo con una grande finezza cromatica: “La Santa che rifiuta di sacrificare agli idoli”, “La disputa di San Caterina con i savi”. Essi sono inquadrati da due finte cornici aventi ai lati, rispettivamente, due figure femminili di grosso impatto monumentale ma con tratti semplici e delicati. Il pavimento è decorato con maioliche del XVI sec; mentre nella volta, troviamo una composizione movimentata, raffigurante una Madonna col Bambino e angeli. La Madonna col Bambino sembra seduta in trono, dando una definizione esatta del gruppo centrale,  ma circoscritta dal movimento degli angeli che ne fanno da cornice.

 

 

CAPPELLA   VI  FAMIGLIA RAVINIANO

 

La cappella fu realizzata per la famiglia dei Raviniano o Ravignano del seggio di Portanova, probabilmente intorno al 1539, anno in cui è attestata la decorazione del pavimento con maioliche di Luca Iodice.

I dipinti, realizzati tra il 1730-1733 da Santolo Cirillo allievo del Solimena, sono interamente dedicati a due importantissimi Santi domenicani: San Pio V e San Vincenzo Ferrer ed alla loro particolare venerazione per la Croce, simbolo della morte e del sacrificio di Cristo.

L’affresco, collocato sulla parete sinistra, è racchiuso in una finta cornice dipinta, all’interno della quale si consuma la scena in cui è ritratto il Santo papa Pio V (1504-1572) mentre contempla la Croce.

Proveniente dall’ordine domenicano, Pio V fu inquisitore nel 1558 ed attuò con fermezza le disposizioni del concilio di Trento (1563).

Il messaggio celebrativo della passione di Cristo, inoltre, continua sull’altare attraverso una tavola in cui è raffigurato papa Pio V, a sinistra, in atteggiamento contemplativo, mentre a destra è possibile riconoscere San Vincenzo Ferrer (sacerdote domenicano particolarmente impegnato nella predicazione) colto nel gesto di indicare il Cristo che, in alto, a sua volta, mostra la sua croce.

Inscritto in una finta cornice dipinta, motivo più volte ricorrente nell’intera chiesa, è il suggestivo affresco impresso nella parete destra e ritraente San Vincenzo Ferrer mentre resuscita un uomo al cospetto di una folla sbigottita, mentre alle spalle prospetticamente vi è un chiaro richiamo raffigurativo al cappellone della Madonna del Rosario del transetto destro.

Al centro della volta, invece, è presente un dipinto avente come soggetto San Vincenzo Ferrer con Dio Padre posto su di una nuvola e circondato da angeli.

 

 

CAPPELLA  VII ACCIAPACCIA

 

La cappella appartiene alla famiglia Acciapaccia, testimoniato dalle stesse scritte sulle lapidi e dallo stemma di famiglia sul pavimento. Lievemente differente dalle altre cappelle per quanto riguarda la decorazione artistica, presentando una pala centrale sull’altare e due monumenti funerari alle pareti. Il dipinto, una Madonna con Bambino e Santi, presente sull’altare può essere quasi certamente attribuito al pittore fiammingo Wenzel Cobergher; opera da collocarsi tra 1590 c.a. Il passaggio dell’artista fiammingo è testimoniato da alcune fonti e da altre opere distribuite sul territorio campano. Cobergher raffigura una Madonna con Bambino circondata da angeli, con un chiaro richiamo allo sviluppo verticalistico della pala d’altare, mentre al di sotto, in perfetto ordine geometrico sono posizionate le figure dei santi; dove alle spalle delle stesse, si apre uno scenario coloristico e paesaggistico descritto minuziosamente proprio alla maniera fiamminga. Alle pareti troviamo due monumenti funerari. Sulla sinistra il sepolcro di Federico Tomacelli, marchese di Chiusano, degli anni 1604-6; fronteggiato dalla lastra sepolcrale di Luigi Acciapaccia, scolpita nel 1552 da Annibale Caccavello. Nella volta si ripropone un ornato di motivi vegetali interamente in oro e al centro viene  raffigurata la chiara illusione ottica di una cupola. Decorazione questa, che si ritrova in modo uguale nella volta della cappella che ha di fronte. Di grande interesse il pavimento maiolicato a cellule ottagonali, composte da una mattonella centrale quadrata, con stemma della famiglia Acciapaccia, e intorno le quattro esagonali.

 

 

CAPPELLA VIII DELLA PENTECOSTE

 

La cappella è detta della “Pentecoste”, associando il proprio nome ad un dipinto cinquecentesco sulla Pentecoste realizzato da Silvestro Buono, opera anticamente collocata sull’altare ma attualmente non più visibile.

La restante decorazione dell’ambiente fu affidato al pittore napoletano Paolo de Matteis, autore delle opere collocate sulle pareti laterali della cappella, rispettivamente con: “La discesa dello Spirito Santo sui domenicani riuniti in un capitolo” sulla sinistra; “La discesa dello Spirito Santo su San Filippo” a destra.

I dipinti sono entrambi inscritti in finte cornici monocromate sorrette ai lati da putti e presentando sulla loro sommità delle iscrizioni riferite ai soggetti ritratti.

Infatti sul dipinto a sinistra: “REPIETI SUNT OMNES SPIRITU SANCTO” ossia: “TUTTI SONO RINNOVATI NELLO SPIRITO SANTO”, in allusione al capitolo dei domenicani ritratto nell’immagine, mentre sul dipinto di destra raffigurante San Filippo: “ME ALUIT COR MEUM INTRA ME” cioè “DENTRO DI ME IL MIO CUORE MI ALIMENTA”.

la volta viene usata da de Matteis per affrescare la “trinità”, raffigurando la triade in modo imponente, monumentale, carraccesco.

Il pavimento ripropone ancora una volta una decorazione con maioliche, presentando al centro un imponente stemma marmoreo.

 

 

DE CASTELLIS IX  (artisticamente una delle più importanti)

 

La capella appartiene alla famiglia De Castellis, ciò è testimoniato dagli stemmi che appaiono sul chiusino e su di alcune mattonelle del pavimento. Sull’altare è presente un’opera datata 1597, Adorazione dei Magi e le Sante Caterina da Siena e d’Alessandria, del napoletano Silvestro Buono, commissionato dai De Castellis. Le figure appaiono monumentali, plastiche, dinamiche, espressive e tese in funzione di una resa drammatica della narrazione pittorica; accompagnate da un disegno nitido e chiaro. Ai lati della cappella si trovano due opere di  Paolo de Matteis, illustre pittore napoletano del Settecento. Sulla parete sinistra troviamo La fuga in Egitto; in risalto sono le forti espressioni dei personaggi e la precisione dei dettagli, con un’attenta descrizione paesaggistica. Mentre a destra con La circoncisione, risultano subito evidenti i grandi effetti cromatici ed il realismo dei personaggi. Entrambi i dipinti raggiungono una chiarezza espressiva che è sintesi tra caravaggismo e corrente carraccesca. Le finte cornici eseguite intorno al 1720 da F. Frangetti che inquadrano La fuga in Egitto e La circoncisione, recano rispettivamente in alto e in basso delle iscrizioni. Sul lato sinistro: “FUTURUM EST ENIM UT HERODES QUÆRAT PUERUM”  “PERCHÈ ERODE STA CERCANDO IL BAMBINO” e “EX ÆGIPTO VOCAVIT FILIUM MEUM” “DALL’EGITTO HO CHIAMATO MIO FIGLIO”. Sulla destra: “IN EUM GENTES SPERABUNT” “(NEL SUO NOME) SPERANO LE GENTI” e “ET VOCATUM EST NOMEN EIUS IESUS” “E FU CHIAMATO GUSÙ”. La volta, invece, evidenzia caratteristiche propriamente barocche, con finti cassettoni ornati in oro e una scena con turbinio di angeli in paradiso iscritta in una finta cornice. Questa opera, sempre di De Matteis, richiama molto il gusto e l’eleganza pittorica del suo maestro Luca Giordano. Il pavimento, infine, è ornato di mattonelle maiolicate datate 1576,  di manifattura napoletana, con l’impiego di colori che sembrano essere un preludio stilistico delle maioliche del secolo successivo.

 

 

 

CAPPELLA X DI SAN GIACINTO

 

La cappella è dedicata a San Giacinto, famoso e coraggioso Santo domenicano di origini polacche vissuto tra il 1183 ed il 1257. Il suo primo compito fu quello di propagare e irrobustire l’Ordine domenicano in patria, poi quello di evangelizzare i pagani di Prussia in patria, fino al difficile incarico di un caposaldo cattolico avanzato a Kiev.

Proprio a Kiev, secondo un racconto del XVI secolo, mentre fuggiva con l’ostensorio durante l’attacco dei Tartari alla città, fu richiamato dalla Vergine Maria perché prendesse con sé anche la sua statua. Questo episodio viene sinteticamente raffigurato dall’opera presente sulla parete sinistra della cappella, con “San Giacinto mentre salva la statua della Madonna e l’ostensorio”

Sull’altare è presente un dipinto su tavola firmato e datato “A. Mozzillo F. 1797”, probabilmente l’autore è il pittore afragolese Angelo Mozzillo attivo anche nella provincia di Napoli. Il dipinto ritrae a destra San Giacinto in ginocchio mentre viene incoronato da due angeli con una ghirlanda di fiori; a sinistra compare, invece, l’immagine della Vergine col Bambino ritratto mentre tende la mano verso il Santo.

Mentre sulla parete destra ancora una storia di “San Giacinto mentre indica ai fedeli la Croce”.

Caratteristica nel suo genere la decorazione della volta, ornata con finti cassettoni a motivi geometrici tipici del barocco romano, con al centro il Santo colto nel momento in cui sale al cielo.

il pavimento decorato a maioliche reca al centro un elegante stemma marmoreo sul quale è presente un cartiglio con la seguente scritta “FLOS QUOQ TEMPUS”.

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